Prima di valutare il politico Trump (1), persino prima di domandarsi “se questo è un uomo” e quindi pesare la sua umanità, forse converrebbe chiedersi che alunno potrebbe essere stato in storia, geografia, letteratura. Per non parlare di antropologia. Attenzione: qui non si tratta di assegnare voti in nome di un atteggiamento snobistico o radical-chic che dir si voglia; quello stesso atteggiamento che, secondo alcuni politici, avrebbe fatto trionfare i ciccioni fanatici del MCburgher delle Grandi Pianure sulle magre e avvenenti democratiche dell’Upper EastEnd o del Village di Manhattan, eleganti, ben vestite e macrobiotiche. Neppure chiamiamo in causa l’evidente carenza di certi sistemi elettorali e neppure di quelli che prevedono il suffragio universale: a te, che stai leggendo, non da un po' noia che il tuo voto valga quanto quello di un truffatore, un violento, uno stupratore?
Chiudiamo quest’argomento: la Storia ha dimostrato che per tutelare la democrazia un principio migliore, nonostante tutto, non esiste. E allora veniamo al punto: come porsi di fronte a un uomo che detiene un potere assoluto e pressoché incontrollato, che pare inviso a tantissimi, ma che tuttavia gode, in questo momento, di una vastissima popolarità, e di diversi - solo annunciati, per fortuna – sedicenti emuli, persino in Italia? Come porsi di fronte a politiche, o meglio a narrazioni, che ci parlano di muri, espulsioni, esclusioni, colore della pelle; che rivendicano diritti per chi è cittadino di serie A, per “NOI” che siamo di “qui”, e doveri, o peggio violenze fisiche (w la tortura, sic) e morali per chi gode di minore fortuna, per chi, per chi viene “da fuori”, insomma per chi è “ALTRO”? A proposito: divertente e dissacrante la vignetta che gira in rete, con il neo presidente a predicare l’espulsione degli immigrati potenzialmente pericolosi e Toro Seduto, oppure altri indiani, a rivendicare la categoria di autoctoni. Attenzione, anche Apache, Sioux e Arapaho sbagliano, anche loro – come è noto – venivano da fuori, avendo attraversato lo stretto di Bering. Ed è questo il punto. Che senso ha parlare di immigrati in un mondo fatto dall’andare dell’uomo, esplorato dalle sue gambe – “L’uomo non ha radici, ma piedi” dice Marco Aime -, dalla sua sana curiosità per l’altro? Un mondo, impuro, meticcio, dinamico e vario, che ci vede tutti parenti (2). In un memorabile testo, “L’invenzione delle razze”, la cui lettura i nostri politici dovrebbe rendere obbligatoria nelle scuole, Guido Barbujani ricorda che, da un punto di vista genetico, la razza è un’invenzione terribilmente pericolosa. Basterebbe la lettura di un suo passo per smantellare anni di credenze : “Siamo sei miliardi e mezzo sulla terra, ma eravamo intorno ai 150 milioni duemila anni fa. Ognuno di noi ha due genitori, quattro nonni e otto bisnonni. Questo significa che 10 generazioni fa, circa 250 anni fa, ognuno di noi aveva un migliaio di antenati (1.024 per la precisione), ognuno dei quali, a sua volta, aveva un migliaio di antenati 250 anni prima. Allora, facciamo un po’ di conti. Ciascuno di noi discende da un milione di antenati vissuti ai tempi dei viaggi di Colombo, da un milione di milioni di antenati nell’anno 1000, e parecchi miliardi di miliardi all’epoca di Cristo. Come è possibile? Siamo costretti ad ammettere che moltissimi dei matrimoni da cui attraverso i millenni deriviamo, siano matrimoni tra consanguinei, che magari non lo sapevano, ma che comunque discendevano da antenati comuni… vuol dire soprattutto che molti dei miei antenati erano anche gli antenati di chiunque leggerà… ” (3). Conclusione, diretta conseguenza: siamo tutti parenti, non soltanto meticci e impuri, da secoli, anzi nei secoli dei secoli. Del resto, gli esseri umani condividono il 99,9% del patrimonio genetico: Calderoli ha molto a che spartire con la Kyenge che ha chiamato “orango” e Trump si differenzia minimamente da un siriano che ha lasciato all’aeroporto.
L’opinione pubblica dice: ma non possiamo perdere la nostra identità, la nostra cultura. Già e quale cultura sarebbe da difendere? Forse quella occidentale, quella che rende tanti fieri di essere al 100% americani? L’antropologo Ralph Linton (già nel 1937!) ironicamente denunciava: “Il cittadino americano medio si sveglia in un letto costruito secondo un modello che ebbe origine nel vicino Oriente. Si infila i mocassini inventati dagli indiani delle contrade boscose dell’Est, e va nel bagno, i cui accessori sono un misto di invenzioni europee e americane, entrambe di data recente. Indossa indumenti la cui forma derivò in origine dai vestiti di pelle dei nomadi delle steppe dell’Asia, si infila le scarpe fatte di pelle tinta secondo un procedimento inventato nell’antico Egitto… Al ristorante, il suo piatto è fatto di un tipo di terraglia inventato in Cina; il suo coltello è di acciaio, lega fatta per la prima volta nell’India del Sud, la forchetta ha origini medievali italiane, il cucchiaio è un derivato dell’originale romano…. Quando il nostro amico ha finito di mangiare, legge le notizie del giorno, stampate in un carattere inventato dagli antichi semiti, su di un materiale inventato in Cina e secondo un procedimento inventato in Germania…”. Romolo, narra la leggenda, ha fondato la Città Eterna chiamando a raccolta uomini provenienti da luoghi diversi, ciascuno dei quali con pezzo della propria terra. Furono gettate, queste zolle diverse, a fecondare la nascente Roma: una città “mista”, ricca, viva. Pensiamo alla meraviglia della nostra Palermo, a quelle architetture, a quei profumi, a quell’incanto di mare, solcato da ogni popolo: pensiamo alla New York dei nostri sogni e dei nostri libri, alla San Paolo dei bairros italiani e giapponesi, o alla Buenos Aires della “genovese” Boca: davvero Trump e i suoi seguaci vogliono privarci di tutto questo?
Cancellare la storia dell’umanità, in nome di un pugno di voti? In nome di un’arroganza, per soddisfare gli umori del più becero e ignorante dei popoli, quello trasversale e sì, multiculturale, multietnico e multi sociale, che si nutre di stereotipi e al quale - che espressione orripilante - “bisogna parlare alla pancia”. Ecco un altro punto fondamentale, lo stereotipo, quella credenza condivisa, data per ovvia in un determinato ambiente politico, sociale o culturale, che si traduce in convinzioni generalizzanti, semplificative, il più delle volte assolutamente erronee. Da qui al pregiudizio, il passo è brevissimo; pregiudizio che non è mai innocente e ahimè, non è mai innocuo. E che diventa dogma. I clandestini che sono tutti delinquenti, i messicani che sono trafficanti (… “ e che il muro se lo paghino loro”), gli islamici terroristi. Ricordiamoci allora di un altro insegnamento della storia, del celebre passo, attribuito a tanti tra cui Bertold Brecht: “Prima di tutto vennero a prendere gli zingari e fui contento perché rubacchiavano… Poi vennero a prendere gli ebrei e stetti zitto perché mi stavano antipatici… Un giorno vennero a prendere me e non c’era rimasto nessuno a protestare”. Siamo stati, siamo e saremo tutti negri di qualcuno, ebrei, zingari, vittime cui ci dovremmo riconoscerci in nome di un’umanità comune. L’esploratore norvegese Thor Heyerdahl, il leggendario “uomo del Kon Tiki”, che ho avuto il privilegio di conoscere, mi disse un giorno che “… di confini non ne esiste neppure uno. Ma ho sentito che purtroppo esistono nella mente di alcune persone”. Sì è l’uomo che crea queste “finzioni”, questi artefatti del pensiero che sono gli stati, le identità, le razze, le esclusioni.
Qualunque cosa noi pensiamo di Trump, di questa America che oggi appare così Wasp – significa White Anglo Saxon Protestant – e che invece è tanto colorata; di questa terra che, ci hanno insegnato, è stata la terra dell’accoglienza; qualunque sia il nostro credo, la nostra fede, la nostra bandiera, non dovremmo, né possiamo dimenticare la storia dell’umanità, l’irresistibile “tentazione” dell’uomo a conoscersi, aprirsi, comunicare.
Altro che “sicuri a casa nostra”, altro che dazi, barriere ed espulsioni. Stiamo soltanto perdendo tempo, mietendo vittime, seminando odi: e chissà quale altissimo prezzo pagheremo. Ma l’uomo continuerà ad abbatterle quelle barriere. La letteratura, la storia, la geografia – materie, discipline che la nostra scuola incredibilmente, inspiegabilmente, ottusamente maltratta, ridimensiona, quanto non cancella del tutto – sono il seme prezioso del nostro futuro. E il viaggio, anche mentale quando non può essere reale, è la nostra salvezza, lo strumento di conoscenza più utile, fecondo, intelligente; viaggi da fare, viaggi da ascoltare. Perché sempre, come diceva Eduardo Galeano, grande scrittore uruguayano, “le labbra del tempo raccontano il viaggio”. E noi dobbiamo continuare ad ascoltarle queste labbra che ci parlano disperate.