Il cibo (3), come ben sappiamo, ha la primaria funzione di mostrare, esaltare ed esasperare le identità e le alterità, essendo un medium indispensabile, quotidiano e a disposizione di tutti.
Si può dire che al giorno d'oggi se da un lato assistiamo ad una progressiva perdita di specificità e caratteri distintivi locali, dall'altro assistiamo anche a rigurgiti localistici, nazionalistici, di matrice etnico-religiosa, ideologica, che si manifestano anche attraverso il rifiuto o l'adozione di particolari cibi. Il cibo è uno spartiacque, crea fratture, confini, ma può anche creare ponti e soglie: sono le ideologie alla base dei ciborami o “paesaggi del cibo” (cfr. Guigoni 2004) a determinare l'orientamento dei saperi e delle pratiche alimentari in uso nei gruppi umani.
Si pensi solo alle polemiche attorno agli esercizi commerciali che vendono kebab in Italia (2); il kebab nei discorsi e nelle retoriche dei mass media italiani è divenuto display della tolleranza o al contrario di xenofobia alimentare (e non solo alimentare). Famoso il caso del 2009 a Lucca in cui si fece un nuovo regolamento comunale secondo cui si vietavano nuovi esercizi commerciali di fast food soprattutto per colpire i “kebabbari” o ancora la delibera del comune di Forte dei Marmi nel 2011 che vietava l'apertura di kebab e sushi bar, mentre nello stesso anno a Cittadella (Padova) si mettevano al bando tutti i take away, soprattutto con l'intento di colpire la nuova ristorazione veloce, di matrice prevalentemente “etnica”.
Da quando in Occidente abbiamo potuto osservare, a partire dalla fine della Seconda Guerra Mondiale, la fine della lunga “età della fame” ed è così nata la cosiddetta società del benessere, si sono moltiplicati i fenomeni legati a disfunzioni individuali e collettive legate al cibo, vere e proprie malattie sociali legate alla cattiva alimentazione, sovralimentazione, ma anche malnutrizione. L'epidemia globale di obesità, i fenomeni della bulimia, dell'anoressia e dell'ortoressia sono ampiamente documentati e conosciuti in tutti i paesi occidentali e in quelli che si stanno occidentalizzando dal punto di vista alimentare.
L'uomo da sempre è stato, in ampissima percentuale, al tempo stesso produttore e consumatore degli alimenti. Oggi si assiste alla dicotomia crescente tra produzione e consumo: nelle società avanzate il settore primario è gestito da una ristretta percentuale di lavoratori, mentre la maggior parte della società è consumista e ha perso i legami col mondo produttivo e con la terra da decenni. Fenomeni come gli orti scolastici, gli orti urbani, gli orti sociali sono il tentativo di riappropriarsi di saperi legati alla mano che sono stati progressivamente persi, ma rappresentano anche la volontà di recuperare sicurezza e sovranità alimentare.
In terzo luogo c'è una progressiva estetizzazione del prodotto cibo, a discapito dei valori legati al gusto, all'abbinamento tra sapori, al legame con le tradizioni familiari, comunitarie, territoriali di quel certo prodotto.
Gli chef (1), attraverso i mass media, sono responsabili di questo trend e sono considerati un po' come dei guru nel senso comune: dettano mode, lanciano stili alimentari, prodotti, modi di dire, persino atteggiamenti e comportamenti. Ad esempio il reality show Masterchef, in onda su Sky, ha sdoganato e reso popolari espressioni quali “impiattamento”, “pressure test” “mistery box”, ormai usate disinvoltamente nei forum di cucina in Rete e nel linguaggio quotidiano
Oggi recandoci nel locale di uno chef “stellato” riconosciamo a fatica la pietanza nel piatto anche se si chiama, per esempio, “linguine al pesto”, perché il piatto è stato completamente destrutturato e ricostruito in modo da generare stupore e meraviglia. Il pesto potrebbe essere rappresentato da una sfera costruita tramite i dettami della cucina molecolare e le linguine da un filo di pasta attorcigliato su se stesso: parliamo di sublimazione del piatto, la scarificazione della sostanza a favore del concept.
Se si prende in esame il menu dello chef Massimo Bottura, collocato unanimemente nella top ten dei ristoranti di alta gamma a livello mondiale, notiamo molto bene questa dinamica di progressiva estetizzazione delle pietanze, di sublimazione e di ridefinizione e riposizionamento, anche in termini di denominazione della vivanda stessa.
Si veda ad esempio uno dei piatti che sembra prendere le mosse da ingredienti italiani “tradizionali” come le anguille e la polenta, che spiega l'origine del nome (l'estetizzazione comprende sempre una accurata e sorprendente ri-denominazione delle cose, in questo caso dei piatti, da cui prende avvio la meraviglia del consumatore): “C’era una volta un’anguilla vanesia. Non si accontentava di nuotare nelle sue acque, ma voleva conoscere il mondo. Allora iniziò a risalire il Po, e attraversò molti paesi diversi, dove conobbe cose mai viste. Per prima cosa incontrò il mais giallo, e se lo caricò in spalla. Poi attraversò un frutteto di mele campanine, e ne fece scorta. Poi, arrivata alla valle del Secchia, trovò le cipolle profumate, e se le portò via. Purtroppo però l’anguilla era assai vanesia, e perdeva molto tempo a mirarsi e rimirarsi: così bruciò la cipolla. Ecco dunque l’anguilla laccata con cipolla bruciata, crema di polenta e concentrazione di mele campanine” (Fonte: http://www.dissapore.com/mangiare-fuori/massimo-bottura-la-vera-storia-dellanguilla-vanesia/).
E' insomma in atto la moda “barocca” dell'alta cucina, estremizzata sia grazie alle tecniche introdotte prima con la nouvelle cuisine e poi con la cucina molecolare, sia grazie all'aumentata disponibilità di materie prime naturali e di sintesi, grazie alle quali quasi niente è impossibile dal punto di vista tecnico. Parliamo di cucina barocca perché il fine principale della pietanza non è nutrire o soddisfare il senso del gusto ma sorprendere, meravigliare, persino sbigottire, così come teorizzava il massimo esponente del barocco, Giambattista Marino: “E' del poeta il fin la meraviglia/chi non sa far stupir vada alla striglia”.
Un esempio su tutti di questo concettismo alimentare è offerto dalla sferificazione degli alimenti, inventata da Ferran Adrià, ancora molto in voga tra gli chef, che consiste nel creare sfere che contengono liquido, grazie all'alginato di sodio.
Un'altra tendenza è costituita dal foraging, dovuta al fatto che dopo la pandemia dell'esotico c'è un ritorno al “locale”, ma riproposto in modo scientifico, rinnovato e spettacolarizzato. Ne è un esempio il Nordic Food Lab del ristorante Noma, forse il ristorante più noto al mondo attualmente, anche in virtù dello sperimentalismo alimentare spinto che viene praticato, a partire dal laboratorio appunto.
Un altro trend, nato in opposizione agli sprechi alimentari occidentali, ha generato due tendenze principali: una organizzata e pubblica che mira a redistribuire le eccedenze alimentari e i prodotti prodotti in surplus, come Banco alimentare, Last Minute Market ed altri; la seconda tendenza è incardinata in movimenti non strutturati, privati e individuali come il freeganism o la pratica del gleaning (it. spigolatura).
Queste ultime pratiche fan parte della grande famiglia degli alternative food network, reti molto complesse e sfaccettate che hanno in comune l'antagonismo con la mainstream dei saperi e delle pratiche alimentari contemporanee.
Tra abbondanza e carestia ci sono molteplici situazioni intermedie, circostanze in cui nei paesi come i BRICS la malnutrizione di ampie fasce della popolazione è affiancata da una crescente obesità infantile e degli adulti: in India ad esempio, la “schizofrenia alimentare” nella popolazione, cioè la compresenza di scarsità di cibo e la disponibilità di cibo industriale nelle grandi metropoli mondiali è un dato ineludibile, basti pensare all'abbandono dell'allattamento materno da parte dei poveri delle metropoli a favore di latti formulati, che poi non vengono adeguatamente preparati né in qualità né in quantità, dando luogo a fenomeni di malnutrizione infantile su larga scala (cfr. A. Guigoni, Distacchi, lo svezzamento dei bambini stranieri a Cagliari, Cagliari, Arkadia, 2012, pp. 44-45).
Al giorno d'oggi, dato l'inurbamento -sempre maggiore- della popolazione a livello mondiale, si verifica l'abbandono delle piccole produzioni e dell'agricoltura familiare, che sono sempre state il pilastro dell'agricoltura, a favore di crescenti monocolture estensive, con conseguente perdita di agrobiodiversità, e dipendenza alimentare da parte dei ceti urbani. Vi sono però fenomeni di ritorno alla terra, con consapevolezza, di adozione di retro-innovazioni agroalimentari per contrastare l'industria alimentare e anche in Italia gli addetti all'agricoltura stanno cambiando volto: da anziani poco scolarizzati e poco propensi agli investimenti a giovani con una elevata scolarizzazione e disponibilità all'innovazione, anche nel campo sociale e culturale (cfr. A.Guigoni, Retroinnovazione, in Antropologia museale, Etnografia del contemporaneo II: il post agricolo e l'antropologia, n. 34, 2015).