Uno spazio di dibattito e confronto aperto e plurale, dove possano convergere esperienze, culture e prospettive differenti. Questo il leit motiv della 23a Esposizione Triennale di Milano (1), visibile sino all’11 dicembre. Imponenti installazioni di 400 artisti e designer, una mostra tematica a cura di Ersilia Vaudo, venti padiglioni nazionali, una esposizione di Fondation Cartier, un museo del design totalmente rinnovato, questo è ciò che si può visitare in questa nuova versione della celebre esposizione nel Palazzo dell’arte (2 - 3). Durante la presentazione il presidente della Triennale Stefano Boeri ha posto in evidenza la “differenza con la Biennale di Venezia, contrariamente alla quale non pone una divisione tra le arti, bensì un confronto tra esse e le scienze, in rapporto alla società e alla natura“. Unknown unknowns, mostra tematica che da il titolo al tutto, presenta opere d’arte ispirate allo spazio in confronto con mappe celesti e la riproduzione del primo quadro in cui è dipinta la via lattea, una Fuga in Egitto del pittore Adam Elsheimer, che risale ad un periodo precedente alla invenzione del cannocchiale e alle esplorazioni di Galileo. La sezione successiva, Mondo Reale, a cura di Hervé Chandès di Fondation Cartier, è immaginata come un atterraggio sul nostro pianeta per portare l’attenzione sulle meraviglie che lo compongono e i segreti che sottendono alla sua imperscrutabile perfezione. 17 artisti internazionali riflettono con le loro opere sui concetti di mistero e ignoto attraverso la lente dell’arte e della scienza. Inedito anche il percorso del Museo del Design Italiano della Triennale, che attraverso opere, installazioni, documenti, processi creativi documenta l’approccio del design alla esplorazione attraverso gli anni che vanno dal 1964 al 1996, dimostrandone il coraggio creativo che ne ha fatto una delle icone dell’Italia nel mondo. I venti padiglioni nazionali, vedono la partecipazione di parecchi paesi africani (4 - 5), tendenza già riscontrata sia nella Biennale Veneziana che a Dokumenta di Kassel. Il Burkina Faso, con l’opera di Francis Kéré ad esempio ha creato un vero e proprio work in progress, una lunga parete, decorata da un murales partecipativo, cui possono prendere parte i visitatori stessi cocreando l’installazione. Simboli e segni che derivano da una visione del mondo secondo la quale tutte le creature viventi sono eguali e in armonia tra di loro. Il padiglione del Kenya pone la domanda sino a che punto dovrà arrivare l’uomo prima di agire sulla salute del pianeta, e lo fa attraverso delle sculture di pesci dell’artista Louise Manzon che è come gridassero il loro dolore e disappunto. Il Lesotho porta una serie di foto di paesaggi del proprio territorio, attraverso i corsi d’acqua che lo percorrono, declinati sia attraverso la natura che legati a modificazione umana, con le infrastrutture delle dighe e i rituali sacri officiati dalla propria popolazione. Acqua che ritorna anche nella sezione della Repubblica Democratica del Congo nelle foto di Pamela Tulizo, attraverso una lettura critica dell’approvvigionamento idrico. Da notare infine la giusta presenza del padiglione Ucraino con un toccante filmato di Gianluigi Ricuperati sulla devastazione della guerra e una sezione di una nazione non nazione, quella dei Sinti Rom. Un'esposizione di grande interesse (6), da seguire con la dovuta attenzione. Un must da visitare per i grandi spunti di riflessione che ingenera nel visitatore. Da non perdere!
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