Con oltre trecento opere divise in sette aree tematiche e tredici sezioni, che coprono tutto il periodo di attività dell’artista, dagli anni cinquanta agli anni ottanta, resta aperta fino al 26 marzo alla Fabbrica del Vapore di Milano la più completa mostra mai vista in Italia di Andy Warhol, l’artista che, più di ogni altro, ha segnato con la sua pop art la seconda metà del novecento (1 - 2). Curata dal critico Achille Bonito Oliva che considera l’artista “il Raffaello della società di massa americana, dando superficie e profondità all’immagine, rendendola immediatamente fruibile, pronta al consumo come ogni prodotto che affolla il nostro vivere quotidiano“, Andrew Warhola, originario nome dell’artista, di Pittsburgh, dopo la laurea nel 1949, si trasferisce a New York e diventa nei primi anni sessanta un pubblicitario di successo che lavora per riviste con il New Yorker, Vogue e Glamour. L’intuizione che lo renderà celebre è quella di ripetere un'immagine più e più volte, in modo da farla entrare per sempre nella mente del pubblico (3). Thirty are better than One, la sua Monna Lisa ripetuta per trenta volte, da celebre ed esclusiva opera d’arte, viene trasformata in in un’opera di tutti e per tutti. Eugenio Falcioni, esperto e collezionista dell’artista dice che “è la quantità a prevalere sull’originalità del soggetto raffigurato: è infatti ripetendo la stessa immagine che egli riesce a portare e mettere in scena il panorama consumistico nel mondo dell’arte: compito dell’artista non è più creare ma riprodurre”. Per far questo Warhol adotta una speciale tecnica di serializzazione, con l’ausilio di un impianto serigrafico, che facilita la realizzazione e riduce notevolmente i tempi di produzione. Ciò, si traduce ad esempio nelle immagini pubblicitarie di grandi marchi che risultano nell'infinita copiatura svuotate del significato originario. Un’arte “consumata“ (4) come qualsiasi altro prodotto. Stessa cosa avviene con i ritratti di celebri personaggi dell’epoca, Maryland Monroe, Mao Zedong, Che Guevara, Elvis Presley e tanti altri che fanno a gara ad essere ritratti da Warhol, come uno status symbol del proprio stato sociale. Inizialmente avversata dalla critica, è grazie a galleristi illuminati come Leo Castelli che le opere di Warhol diventano una vera icona del “secolo breve“, riconosciute a livello planetario (5 - 6). Viene così creata la celebre “Factory" dove una squadra di talenti concepisce accanto al maestro a ritmo frenetico tutta una serie di quadri, film, cover musicali, sculture, copertine di riviste. Tantissimi sono gli artisti che vedono Warhol come un vero e proprio padre spirituale e che divennero in seguito riconosciuti per le loro opere, basti pensare a Basquiat ed Haring. Con il numero elevatissimo di opere, la mostra milanese documenta efficacemente questo avvincente percorso che ha reso immortali questi artisti attraverso un merchandising talmente capillare da anticipare la globalizzazione e i social network di molti decenni. Un’arte unica, coraggiosa, innovativa e traboccante di idee, ben rappresentata dalla mostra che vi consigliamo di non perdere.
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