Ecco il nuovo slogan per le anime belle: “l’ha dimostrato il VAR”. Sostituisce, o meglio affianca, altri epocali mitologie: “l’ho sentito alla radio”, “l’ha detto la televisione”, “c’è scritto sul giornale”, “l’ho trovato su Internet”.
Per chi non lo sapesse ancora, il “Video Assistant Referee” (il VAR, appunto) è quel nuovo sistema per cui due ufficiali di gara – sempre arbitri (1) - esaminano le situazioni dubbie della partita utilizzando l’ausilio di filmati. A partire da quest’anno viene applicata durante le partite del campionato italiano di Serie A oltre che nella Bundesliga tedesca, e la sua ondivaga, imprecisa e dubbia applicazione ha già suscitato molte di quelle polemiche che si pensava – ingenuamente – si sarebbero attenuate. Ma questa breve riflessione non vuole parlare di calcio, o meglio solo di calcio: l’umile pretesa è quella di svelarci, come peraltro le dinamiche legate a questo sport sono sempre in grado di fare, un poco di noi.
Perché allora, sarebbe una mitologia da sfatare? I primis, perché regala l’illusione di una giustizia super partes, sebbene in un mondo ingiusto e assai perfetto, in una società diseguale.
L’arbitro, ideale figura di capro espiatorio per presidenti, allenatori, giocatori (2), tifosi, è sempre stato colui, che - chissà in virtù di quale potere – avrebbe dovuto essere il garante della perfezione, della giustizia assoluta, dell’uguaglianza. Tutti possono sbagliare, ma l’arbitro no. “È succube di fronte al potere delle grandi squadre” - è la critica più comune, che chiama in causa quell’espressione – “sudditanza psicologica” - divenuta familiare. Peccato che a pronunciare la frase siano coloro che affollano il centro di Milano per assistere alla comparsata di un “tronista”, coloro che si prostrano davanti alle pretese del proprio datore di lavoro, che farebbero carte false per condividere un cocktail con una velina o con un calciatore. Così, magari per il gusto di un selfie.
Ma da oggi tutto cambia: c’è il VAR, e l’arbitro finalmente non sbaglierà più. Errore: è stato semplicemente spostata – di qualche metro, di qualche istante – in realtà troppi istanti – la responsabilità; affidata questa responsabilità, non già a una macchina, come molti sono propensi a credere, ma semplicemente ad altri uomini. Che giudicano – soggettivamente, attenzione, e non oggettivamente – quel che vedono.
L’uomo, da sempre, interpreta il reale e costruisce simbolicamente, utilitaristicamente, relazionalmente - in una parola, culturalmente - quelle idee che ci paiono invece costituite di essenza, immutabilità, inevitabilità, purezza. Lo fa con le identità, le etnie, le religioni, le varie culture – che sono appunto “finzioni”, ovvero costruzioni del pensiero umano –, persino con le notizie, che sono realtà plastiche, dinamiche, relative.
Sappiamo, o dovremmo sapere bene, che le immagini di una partita di calcio, così come quelle che immortalano scontri di piazza, battaglie, dialoghi, reazioni umane vanno “interpretate”. I media, ovvero la radio, la televisione, i giornali e ora Internet sono riempiti non già di verità, immagini, scatti con il dono dell’obiettività, ma da “interpretazioni”, visioni, pareri personali, ideologici, individuali, collettivi, talvolta imposti.
L’innovazione, la tecnologia – sappiamo o dovremmo sapere anche questo - regalano l’illusione delle “macchine che cambiano la vita” e ovviamente in meglio di una feconda mutazione antropologica. Tanto è vero questo mito, che la nostra viene ritenuta la civiltà “superiore” e più sviluppata proprio a partire da questi parametri tecnici e parziali, come se non ve ne fossero casomai altri, come il rispetto per la natura e per gli anziani, l’interesse per l’educazione dei figli, l’eguaglianza sociale.
La tecnologia – stiamo verificando, grazie a Internet e ai social media - dà molto in termini di opportunità, ma tanto, tantissimo toglie. E, soprattutto è sempre l’uomo a riempire i media, così come a interpretare, selezionare, far funzionare la tecnologia, o no? Chi sceglie – siamo tornati al VAR - quali immagini visionare, e che le giudica, se non un uomo, un arbitro, anche se accanto al suo monitor non è più vestito di nero? Un uomo, o due, con più tempo e quindi meno alibi e più responsabilità. E se sbaglia, cos’è malafede?
E poi siamo moderni a metà: la memoria seleziona, rimuove, dimentica: quando ci fa comodo rimpiangiamo la tradizione (per inciso, altra “invenzione” dell’uomo) e allora perché cambiare il nome a una scuola, perché non amare la civiltà e il calcio inglese, dove vige il rispetto, la cavalleria, e il calcio si pratica, si osserva e pochissimo, o niente si discute.
No, in questo caso dobbiamo essere al passo con i tempi e vivisezionare azioni, contatti, intenzioni, spintarelle e gomitatine. Certo, esisterà anche, nelle partite di calcio come negli accadimenti della vita, qualcosa che si avvicina all’oggettività: una linea nettamente oltrepassata, una legge (comunque un’altra “fictio”) violata.
Ma il resto, vivaddio, è vita, è destino, sono le regole del gioco. Battiamoci, certo perché la giustizia si affermi, per l’eguaglianza sociale, per il rispetto delle regole.
Ma i campi dove applicare questi desideri dovrebbero essere ben altri: la società civile, la politica, la scuola e certo la vita di tutti i giorni. Non può essere il VAR a darci la misura delle scelte umane, non può essere una macchina, un monitor, a scaricarci dalle responsabilità. Dobbiamo farcela noi, sapendo che continueremo a sbagliare.
Infine, milioni tra uomini, donne, e soprattutto bambini, giocano a calcio, in tutto il mondo alimentando l’illusione di praticare lo stesso sport dei campioni, e con le stesse regole. Proprio lo stesso, magari con i maglioni al posto dei pali, magari giocando scalzi, con un arbitro improvvisato, o addirittura assente, ma sempre latente, immanente, perché certe cose, si sa, non si possono fare. A nessuno, proprio a nessuno verrebbe in mente di dire: “ferma la partita, vado a vedere le immagini”. Sarebbe come dire: “fermate il mondo, voglio scendere”.