Per adesso, di sconfitto, c’è solo… il tabellone. Poche vere delusioni – la Russia, la Svezia, la Turchia -, tutte le cosiddette “grandi”, dalla Germania alla Spagna, dall’Inghilterra all’Italia, qualificate agli ottavi di finale, una favola, quella dell’Albania, che è sfumata sul più bello. Però, che peccato che questi squadroni siano tutti concentrati in una parte del tabellone, mentre dall’altra parte uscirà una finalista tra Svizzera, Polonia, Croazia, Portogallo, Belgio, Galles, Irlanda del nord e Ungheria.
Nessuna di queste squadre vanta un titolo internazionale. Ma tant’è, in questo caso a determinare queste incongruenze non è stata la proverbiale imprevedibilità del calcio quanto la cervellotica formula. Per dirne una, nel nostro girone sarebbe stato meglio classificarsi secondi che non primi. Terminata questa lamentazione contro l’organizzazione francese – detta con ironia, nel mondo del calcio bisogna sempre trovare un capro espiatorio - c’è da dire che, praticamente il vero Euro 2016 (1) parte ora, da sabato 25 giugno.
La Spagna pare la favorita: i suoi solisti, da Iniesta a David Silva paiono ispiratissimi, il tiki-taka, quel tipico gioco fatto di passaggi corti, insistiti e precisi, funziona a dovere e in più, a differenza di altre occasioni, c’è un terminale offensivo, Alvaro Morata che punge a dovere. E le furie rosse toccano proprio a noi, in quello che è sicuramente l’ottavo di finale più atteso e sulla carta incerto. L’Italia di Conte deve sovvertire un pronostico che pare scritto: la squadra azzurra, fatta eccezione per i componenti della difesa, è poco più che mediocre per quanto riguarda i valori tecnici. Ma dal punto di vista dell’organizzazione del gioco, del trasporto dei calciatori, dell’attaccamento alla maglia, della volontà, dell’applicazione, beh, non siamo secondi a nessuno. Storicamente poi, si sa che il nostro destino è quello di ribaltare il pronostico, di sovvertire l’ordine costituito, di sorprendere. Le vittorie più belle – contro la Germania, il Brasile, la Francia – sono sempre avvenute grazie alla dedizione, al coraggio, a quel “gettare il cuore oltre l’ostacolo” che sono le caratteristiche antropologiche più praticate dal calcio italiano.
Degli altri che dire, se non che speriamo di incontrarli e batterli tutti: i tedeschi, sempre più “meticci” tra turchi, albanesi e africani di adozione; gli inglesi, giovani e forti, come sempre, ma come sempre capaci di sorprendere in negativo, i francesi, anch’essi sempre più “colorati”, per la disperazione dei Le Pen, che si aspettato quella vittoria che non è mai mancata nelle manifestazioni organizzate in patria: Europei del 1984, Mondiali del 1998.
E a proposito di patriottismo: da qualche anno, e in questi giorni di partite se ne avuta la conferma, vige l’uso commovente, ma talvolta smodato, di cantare gli inni nazionali a squarciagola, da parte dei tifosi e dei calciatori. Come leggere questa rinata passione per la patria? In termini di semplice attaccamento alla maglia – e questo nello sport è doveroso – di riconoscimento identitario per “nuovi” cittadini, oriundi o naturalizzati che dir si voglia – umanamente meraviglioso - oppure in termini di rivincita, consolidamento e rivendicazioni di radici e tradizioni? In quest’ultimo caso la deriva sarebbe pericolosa, e gli hooligans inglesi e russi che hanno devastato qualche città francese ne sono la prova.
E intanto, mentre si gioca, i britannici – Inghilterra, Irlanda, Galles e Irlanda del nord hanno passato tutti il primo turno - stanno decidendo il loro destino circa l’uscita o meno dalla Ue.
Il calcio, insomma si dimostra ancora una volta in grado di accompagnare e molto spesso anticipare tendenze e fenomeni sociali, fermenti e umori dei popoli. Guardiamo le partite, certo, e godiamocele, ma non dimentichiamo che il calcio è fatto sociale totale, un fenomeno in grado di integrare la conoscenza di tante situazioni che interessano la nostra società.