In occasione della grande kermesse fashion fiorentina del manswear che coinvolge non solo i saloni della Fortezza, ma anche grand parte della città con eventi, l’Istituto Europeo di Design riserva, fino al 12 gennaio, una serie di attività dedicata nella propria sede di via Bufalini.
In questi giorni e in virtù del progetto EcoEgo, ideato dallo stesso Istituto, gli studenti devono cimentarsi con materiali e tecniche green per la produzione di una capsule collection eco-friendly. Un workshop importante, sotto la guida del designer Tiziano Guardini, con solo materie prime fornite dai distretti di tessuto del made in Italy più attenti all’ambiente, che vedrà la presentazione finale dei prototipi venerdì 12 gennaio, sempre allo IED fiorentino.
Ancora, per tutta la durata del workshop, ad ulteriore stimolo per gli studenti, l’Istituto Europeo di Design del capoluogo toscano accoglie un particolare allestimento a cura di Giovanni Ottonello, Direttore Creativo IED. Il corner Back to the Eighties, consacrato allo storico brand di calzetteria Emilio Cavallini, che mette in mostra alcune iconiche creazioni.
Oggi ospite d’eccezione del polo culturale, è stata Livia Firth (1), moglie dell’affascinante attore inglese Colin, designer, consulente etica e ideatrice di Eco-Age, fondazione attiva nella promozione di processi produttivi meno impattanti nell’universo fashion e consumi più consapevoli. Moderna, fresca ma soprattutto determinata, la stilista romana ha subito mostrato un atteggiamento generoso nei confronti dei molti studenti intervenuti da tutte le sedi italiane dello IED (2).
Raccontando steps e sfide della sua battaglia per una moda più sostenibile, la Firth ha contribuito a ispirare la giovane platea (3). Ha così sollecitato i ragazzi a sviluppare una propria consapevolezza su ciò che indossano, non dimenticando che dietro ogni capo ci sono uomini e donne, molte donne, purtroppo non sempre sottoposti a rapporti lavorativi corretti.
L’industria della moda ha un impatto estremamente importante e, a volte, anche deleterio: noi, ignari se non inconsapevoli consumatori, siamo forse i primi a non porci scomode domande a fronte di un capo dal prezzo accattivante… E così ecco, ad esempio, il Bangladesh, ma non solo, dove la Firth ha visto donne lavorare in uno stato di vera schiavitù, in una sedicente fabbrica esemplare, producendo senza sosta dai 100 ai 150 capi ogni ora per 46 dollari al mese. O l’ormai onnipresente industria del “fast fashion” dove la velocità produttiva è un diktat: ogni settimana, infatti, c’è un estenuante turnover di collezioni che devono essere messe rapidamente sul mercato a prezzi ridottissimi. Una competizione folle che mina non solo il tessile in senso lato ma anche e soprattutto i lavoratori e i designer.
Attenzione, quindi a chimere come un bel vestito a 5 euro: un prezzo democratico? Forse, spesso, però, dietro c’è l’inferno.