Il pane, si sa, è un classico, ossia non finisce mai di dire ciò che ha da dire; Gabriele Rosso, cuneese del 1979, slowfooder, membro del comitato di redazione della rivista L'Integrale e vicecuratore della guida ai vini Slow Wine, ha scritto un libro sul pane che è un saggio sociologico, un pamphlet politico insieme. Il libro scorre bene e veloce, tra esempi più o meno noti, citazioni e considerazioni molto attuali. Si parte dai cacciatori raccoglitori del Paleolitico, che iniziarono l’arte bianca in modo sperimentale e con prove ed errori, noto il protopane amidoso di typha di Bilancino del Mugello di 30,000 anni fa, sino ai giorni nostri post pandemia, in guerra e con l’inflazione alle stelle. Dall’Ottocento ad oggi il grano, sottolinea Rosso, è una commodity e i consumatori via via ne consumano sempre meno, preda delle proprie ossessioni alimentari, in primis la carbofobia, il terrore dei carboidrati, a favore delle proteine, ormai in tutti gli alimenti. Rosso ci accompagna nelle tappe principali della storia, dal pane egizio, lievitato, forse grazie alla grande perizia nel fare la birra, altro importantissimo alimento fermentato, sino all’epoca di Gilgamesh e poi omerica, quando si è compiutamente umani se mangiatori di pane, sino al Vecchio e Nuovo Testamento.
Rosso rivaluta, sulla scorta della storiografia medievale di oggi, l’alimentazione ricca del Medioevo, scaduta poi in Epoca moderna, età della fame vera, citando il manzoniano assalto ai forni di seicentesca memoria sino all’ideazione del Wonder Bread da supermercato, con la scomparsa della qualità in funzione di una produzione di massa, a cui fa da contrappunto, una piccola riscoperta della figura del fornaio e della panificazione artigianale di alto livello, che riguarda, ahimè una élite socio-economica di consumatori anche nella nostra Europa, in realtà in preda a finti “pani freschi” e a tanti pani di poco prezzo e poco valore. Questa Storia del pane ripercorre i tanti mutamenti tecnici e valoriali che hanno portato il pane a diventare una commodity capace di giocare un ruolo fondamentale persino negli scenari geopolitici, come durante le guerre napoleoniche, o nell’attuale braccio di ferro tra Ucraina e Russia. Rosso cita Fernand Braudel, il padre di noi storici e antropologi del cibo, con le sue pennellate semplici ed efficaci sul pane Re della tavola, quando i contadini campavano di quello mangiandone sino ad un kg e più al giorno, oggi ridotto ad 80 g pro-capite.Con la scoperta dell’agricoltura e la successiva sedentarizzazione dell’uomo si scoprì troppo tardi che si stava meglio quando si stava peggio, come già evidenziato dall’antropologo Marshal Sahlins ed altri, come storico Yuval Noah Harari: “la Rivoluzione agricola fece si che gli agricoltori avessero un’esistenza generalmente più difficile e meno soddisfacente di quella dei cacciatori-raccoglitori.
La Rivoluzione agricola certamente accrebbe la quantità totale di cibo a disposizione dell’umanità: ma questa nuova abbondanza non si tradusse in una vita più comoda. Piuttosto, si tradusse in esplosioni demografiche e nella creazione di élite viziate. […] La Rivoluzione agricola fu la piu grande impostura della storia”. Arriviamo all’anno Mille quando Michele I Cerulario Patriarca di Costantinopoli divenne insieme a Papa Leone IX protagonista del Grande Scisma tra Chiesa d’Oriente e Chiesa d’Occidente. Il pane sotto forma di hostia (lat. vittima) fu centrale. Cerulario sosteneva che l’ostia doveva essere lievitata e non azzima, come invece il pane ebreo. La questione è complessa, poiché, come ho scritto ne La lingua dei santi, cibo e vino nel tempo tra sacro e mondano, il pane lievitato era considerato dagli Ebrei (e Musulmani) impuro, quello azzimo puro. La fermentazione assomiglia troppo alla femminilità e a tutto ciò che ruota intorno al corpo femminile. Le nonne del popolo non dicevano che con il mestruo era interdetto avvicinarsi al pane in lievitazione, pena la rovina del pane stesso? Il saggio prosegue delineando alcune fondamentali innovazioni tecnologiche, dagli studi di Pasteur al molino a cilindri, sino all’oggi, quando il pane, da pubblico e comunitario, diventa sempre più un prodotto della solitudine contemporanea, il grande male che affligge l’umanità, costantemente connessa e sempre più disconnessa da se stessa, dagli altri e dalla Natura.
“Oggi, afferma Rosso “il pane e diventato per tutti noi una questione privata: lo acquistiamo dai panificatori artigianali o da quelli industriali, e lo consumiamo chiusi tra le mura delle nostre case, non avendo più la minima idea dell’universo di senso collettivo che gli ruotava intorno fino a qualche decennio fa”. Il rifiorimento della panificazione con il lievito madre, dell’arte bianca artigianale e della riscoperta di grani locali, grani storici e saperi locali potrebbe mitigare una tendenza in atto che vede la progressiva e inesorabile marginalizzazione di un prodotto che è stato centrale nella storia dell’umanità; solo il tempo ci dirà se i panifici che stanno aprendo nelle grandi città animeranno i quartieri sostenendo le comunità o saranno rivendite eleganti per foodie solitari.