Food :: 3 dic 2017

Giulia Maffei, Giulia Tacchini, Un insetto nel piatto. Piccola guida al cibo del futuro.

Milano, RED edizioni, 2016

C’è un sottile ma resistente filo rosso che lega gli avanzi, gli scarti alimentari e certi alimenti tabuizzati, come gli insetti: questo filo si chiama Cultura alimentare.
Nei periodi di carestia il genere umano si è “abbassato” per così dire a consumare gli scarti animali e vegetali, come parti meno “nobili” delle bestie macellate (interiora, orecchie, parti intime), le bucce delle patate e della frutta, piuttosto che certi semi, e anche alcuni tipi di insetti. Nell’ultimo caso le cronache antiche, medievali e della prima modernità parlano di contadini impazziti dalla fame, che si davano a divorare tutto ciò che trovavano sottomano. Quei comportamenti erano e sono stigmatizzati, alla luce di una credenza piuttosto diffusa secondo cui ci sono cibi buoni e cattivi “per natura”.
La naturalizzazione dei consumi alimentari è un mito da sfatare, perché noi diamo l’etichetta di “gustoso” e “disgustoso” a cibi che di per sé non sono né buoni né cattivi: semplicemente sono se stessi.
La FAO da anni ripete che se la crescita della popolazione andrà avanti con questa voracità sarà un problema dare da mangiare a 9 miliardi di persone nel 2050. Se saranno 9 miliardi di schizzinosi, almeno. Altrimenti sarà un futuro insostenibile, per cosi dire.
In realtà i nostri gusti sono socialmente e culturalmente costruiti, e dipendono dall’epoca storica nella quale viviamo. Ciò che al giorno d’oggi va di moda era considerato una aberrazione 50 anni fa. Parlo del pane integrale ad esempio, quel pane scuro, che i nostri nonni mangiavano con rabbia e rassegnazione, sognando il pane bianco sulle mense dei ricchi. Oggi nutrizionisti, medici e influencer ci ripetono di mangiare solo prodotti integrali, da farine poco raffinate. Oh Yeah. Tutto cambia per non cambiare. In realtà oggi un buon pane integrale, magari fatto con lievito madre (più salutare ci ripetono) e tanti buoni semi sopra (i semi oleosi sono un toccasana, ripetono) costa due o tre volte un panino di farina 00, prodotto con umile lievito di birra, in un panificio industriale. Così il povero compra il pan bauletto alla GDO, a 99 cent. e l’abbiente va nel panificio bio e acquista la sua pagnotta quotidiana.
Così nel mondo occidentale i ricchi sono mediamente più magri, in forma e in salute e i poveri sono grassi, pieni di colesterolo e diabete. Si è spostato il focus insomma: sino a 50 anni fa grasso era bello, le persone grasse erano privilegiate, oggi sono socialmente stigmatizzate, ridicolizzate e negli Stati Uniti (patria della taglia XL in tutto) anche fortemente discriminate. Uno spostamento di senso che non cambia degli ancestrali rapporti di potere, costruiti e mantenuti attraverso la “distinzione”, il consumo di alimenti “status symbol” e certe pratiche culturali. Da sempre e forse per sempre.
Sino a non molti decenni fa in Europa i ceti popolari andavano in campagna a raccogliere erbe selvatiche e frutti spontanei, con un filo di vergogna, perché chi era benestante entrava trionfale nei primi market moderni. La modernità e il progresso imponevano di acquistare prodotti pronti, industriali, chi si autoproduceva il cibo in casa era povero, ergo sfigato. L’olio fatto in casa? Un epic fail direbbero.
Oggi gli chef à la page e le food blogger più cool fanno a gara nel proporre oggetti targati food forest, nel raccogliere prodotti “dimenticati” delle campagne. Miriade di corsi insegnano a autoprodursi il cibo e a cucinare, soprattutto con scarti e avanzi (quante ricette col pane rafffermo…). C’è anche il recupero di tutte quelle produzioni “storiche” o “antiche”, locali, di nicchia, slow, che gli esperti di marketing territoriale mettono al centro dello sviluppo locale. Perché, al tempo dell’era dell’agroindustria, anzi dell’imperialismo alimentare, la parola d’ordine è essere diversi, unici, irripetibili, attraverso consumi altrettanto differenti, rari ed impareggiabili. Siamo ciò che consumiamo ma soprattutto vogliamo rispecchiare il nostro Ego, sempre più grande grazie (sic) ai social network, nei nostri consumi.
Il turismo enogastronomico ha creato una produzione abnorme di lardi di colonnata, formaggi di fossa, pani di altamura, baroli e cioccolati pregiati, piccole produzioni prese d’assalto da orde crescenti di famelici consumatori di territorio. Il fenomeno economico della long tail ci insegna che ormai potenzialmente esistono milioni di consumatori di prodotti di nicchia (Amazon si sta attrezzando sul food, Alibaba è già sul pezzo) per cui grazie alle reti telematiche e ai trasporti superveloci (deli, delivery ovunque, con i boys dei trasporti) possiamo trovare in Rete il produttore del nostro salame di asino di montagna e vederci recapitare il pacchetto del salume in poche ore.
Attenzione a non dobbiamo confondere il green marketing, basato sulla sostenibilità, e il diritto delle comunità locali di produrre cibo e di mantenere la propria identità, anche alimentare, con le sirene del green washing. La sostenibilità viene sbandierata all’agroindustria come il nuovo vessillo col quale attirare lo sprovveduto cliente.
Non dobbiamo confondere il diritto di consumare cibo “buono, pulito e giusto” alimentando meglio se stessi e aiutando i produttori locali a sostentarsi e a presidiare il territorio, i negozi a sopravvivere, con la moda frivola, fine a se stessa, senza valori né ideali, se non quelli di fare business, alle spalle degli altri.
Se ci fate caso oggi è tutto senza olio di palma ormai, senza zuccheri aggiunti, è tutto integrale, di zucchero di canna, è tutto biologico, è tutto senza grassi. Sappiamo che milioni di persone seguono diete “gluten free” senza essere affetti da intolleranza al glutine, per il semplice fatto che trovano rassicurante (buono da pensare, direbbe Claude Levi-Strauss) consumare prodotti di quel tipo. Ho visto persone perfettamente sane e senza nessun tipo di intolleranza o allergia autoflagellarsi, consumando solo prodotti senza lattosio e senza glutine. Si chiama ortoressia. Una delle tante nevrosi e ossessioni dei paesi ricchi, applicate al cibo.
Sin qui l’antefatto alla recensione del libro.
Cosa c’entra l’entomofagia? C’entra e molto perché la FAO indica nell’aumento del consumo di insetti una delle strade per rendere più sostenibile l’alimentazione delle generazioni future. Le autrici del libro (1 - 2) vi guidano, passo dopo passo, a scoprire quali insetti sono commestibili, chi li mangia da sempre e come, che proprietà nutrizionali possiedono, come si cucinano. Le conclusioni indicano che mangiare insetti ed altri invertebrati aiuterebbe a inquinare di meno il nostro pianeta. Si tengono lontane dalle mode le autrici, con un piglio di divulgazione scientifica che aiuta a farsi una idea chiara dell’universo entomofagia.
Grazie al recente Festival della Scienza di Oristano che ha invitato le autrici (costituite nell’associazione Entonote da diversi anni, che propone degustazioni e corsi a tema) il pubblico presente al festival ha assaggiato, più con curiosità che con disgusto, i grilli (Acheta domesticus) e le camole della farina (Tenebrio molitor) portate da Entonote per una degustazione speciale.
Poi, per concludere, ogni anno consumiamo già da mezzo sino a 2 kg di insetti, macinati per caso e per errore insieme alle farine, e a tutto ciò che viene molito. Non è una vera novità per il nostro stomaco insomma, ma solo per la nostra testa, la nostra mentalità
Mettere i grilli in testa è una delle missioni dei Entonote, e il libro ha azzeccato la formula.

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