Focus On :: 5 gen 2016

DIPLOMAZIA DELLA CUCINA. CUCINA DELLA DIPLOMAZIA?

S.E.L’AMBASCIATORE ANTONIO NAPOLITANO RACCONTA

Lei è stato Ambasciatore italiano (1 - 2), ricoprendo la carica in molti paesi Medio Orientali, quali le tappe più significative della sua carriera?

Il primo incarico fu come console in Germania a Stoccarda, negli anni dal 1960 al ‘64. Un’esperienza particolarmente interessante perché ho vissuto l’ultimo periodo di quell’ondata di emigrazione italiana che ha contribuito a costruire, e bene, l’Italia nel dopo guerra. Due milioni di emigranti in tutta la Germania. E quando oggi la Cancelliera Angela Merkel sostiene che la Germania può arrivare a ospitare fino a 300 mila emigranti, non dice nulla di nuovo. Ne hanno avuti molti di più.

Dopo Stoccarda, venne per me il turno, fino al 1968, del così detto “nuovissimo Mondo”: l’Australia. Anche lì, come in Germania, la mia attività era soprattutto dedicata agli emigranti, circa un milione d’italiani, con strane enclave. Penso a quando, pressoché tutto il paese di Capo d’Orlando, in Sicilia, si trasferì al seguito di un sacerdote nel Nuovo Galles del Sud, dove fondarono l’area agricola della “Riverina Village”, a pochi km da Sydney.

Dopo l’Australia, la mia missione diplomatica mi portò nel nord d’Europa; trascorsi quattro anni in Norvegia come Ministro consigliere. Ho vivo ricordo dell’episodio in cui i sovietici, nel ’97, tentarono di estrarre il petrolio dalle Isole Svalbard, protette da un trattato di sette Paesi, tra cui anche l’Italia. Fummo, infatti, chiamati a fare ciò che è normalmente definita azione di “protesta diplomatica” insieme al governo norvegese, contro l’intrusione sovietica. I sovietici furono molto pragmatici e, come Cuba insegna, fecero un passo indietro. A differenza di quanto ci professa spesso l’America, se c’è un popolo che non ha mai tirato tanto la corda da arrivare al punto di rottura, è sempre stato Mosca.

Dopo la Norvegia, e dopo un periodo di permanenza a Roma, fui, nel 1980, primo Ambasciatore italiano ad Abu Dhabi, negli Emirati Arabi Uniti. Un periodo costruttivo, tanto che l’Italia passò dal sesto/settimo posto come Paese esportatore e importatore da Abu Dabi, al secondo posto dietro la “solita” Francia che ha sempre costituito il mio punto di riferimento.

Dal 1983 al 1986, seguì l’incarico, sempre come ambasciatore, a Baghdad, in Irak, Paese in guerra e ricco di petrolio, secondo solo all’Arabia Saudita. Trascorsi, poi, quattro anni come Direttore generale della cooperazione al Ministero degli Esteri. Venne, quindi, il Lussemburgo (3) e successivamente quella che ancora oggi definisco la mia esperienza più bella: la Siria, da me voluta fortemente (4).

Grande ambasciatore ma anche gourmet. C’è una cucina che ha amato più di altre?

Sicuramente la migliore cucina, così come molti dei suoi vini (5), è quella siro-libanese. Varia, raffinata e decisamente buona. Quella palestinese ha influenze più nomadi, quindi più grassa, mentre la siro-libanese non ha nulla da invidiare all’italiana, alla francese o anche alla cinese per ricercatezza ed eleganza.

Ancora, quali particolari abitudini e curiosità ha riscontrato a tavola?

Innanzitutto, il “galateo della tavola” differente nei vari Paesi. Da conoscere bene. Nei paesi nordici per esempio, se si è meno di dodici a tavola, si può proporre un brindisi alla padrona di casa, diversamente, non è concesso. D’obbligo il discorso di “grazie per la tavola” (in norvegese takk for maten), a volte lo fa chi si trova a destra della padrona di casa (Europa centrale), altre chi si trova a sinistra (Europa del nord). Normalmente c’è differenza tra le tavole placées del Medio Oriente (6) e quelle più compassate del centro e nord Europa.

Un aneddoto particolarmente “originale”?

Ricordo quando in una delle mie trasferte Medio Orientali, ad Abu Dhabi, alla corte di un Emiro, fu servito l’agnello arrosto su un letto di riso fritto con piselli. E Fin qui tutto bene, salvo che il boccone prelibato era, secondo la tradizione, l’occhio dell’agnello. Il padrone di casa, infatti, mi offrì l’occhio destro, in qualità di suo ospite più pregiato, e quello sinistro all’altro ospite, un importante industriale italiano che veniva per chiudere un contratto. L’industriale basito cercò in me un alleato per poter uscire dall’insolita empasse. Gli risposi che il business era il suo: a lui l’ardua scelta. Comunque, lo inghiottimmo senza masticarlo. Scivolò meglio di una medicina…

A tal proposito mi piace citare la funzione anche delle ambasciatrici, ruolo tutt’altro che banale. Sono molte le missioni andate a male a causa di consorti di ambasciatori che non hanno capito l’importanza di adattarsi a certe situazioni, anche se apparentemente molto lontane dalle nostre abitudini. Con mia moglie (1), per esempio, nel 1982, andammo in visita a una tribù di nomadi, nell’area desertica fra Abu Dhabi e la catena di alte montagne che fronteggia l’oceano indiano; Il ristoro prevedeva caffè e un grande piatto di datteri… “moscati”. Nel senso di centinaia di mosche attaccate ai frutti gustosi. L’intelligenza di mia moglie fu di non declinare l’offerta, a differenza di altre signore presenti. E comunque, l’escamotage fu di scegliere ad arte alcuni datteri posizionati, per così dire, più distanti dal centro del piatto. E quindi meno “coperti” dai fastidiosi e golosissimi insetti. Di necessità, virtù!

Cultura e cucina, l’ambiente conviviale aiuta o complica i rapporti diplomatici?

Personalmente, non mi è mai piaciuta la facile ironia secondo cui un diplomatico “si fa bello” da un cocktail all’altro: la professione si costruisce proprio con il contatto e il contatto più difficile è il così detto appuntamento riservato. Quello più semplice, invece, che spesso è anche quello più produttivo, è casuale, reso cioè possibile dai tanto famigerati cocktail, così come le colazioni ecc. Strumenti essenziali della diplomazia. Esattamente come la diplomazia è lo strumento essenziale per andare d’accordo senza guerre. La guerra inizia la dove la diplomazia fallisce.

Mondo islamico e Isis: dove le responsabilità dell’occidente?

Credo che noi tutti “occidentali” abbiamo fatto errori madornali in passato. Penso agli Stati Uniti: l’Afghanistan serviva loro per scaricare la tensione del dopo 11 settembre. E poi l’Iraq che, in realtà non c’entrava nulla. L’altro errore è stato quello di non capire il mondo islamico (e non solo quello arabo) quando ha cercato di laicizzarsi. Di superare cioè quella fase nella quale si poteva morire e mettere a morte per motivi religiosi. L’inquisizione e il rogo delle streghe, che da noi sono finiti con il secolo “dei Lumi”, dopo la Rivoluzione francese, insegnano. Non abbiamo intuito che agli arabi serviva laicizzarsi in fretta. Di più, li abbiamo completamente ignorati. Alcuni esempi? Mossadeq in Iran, con l'intento di rendere i frutti del petrolio accessibili in misura maggiore agli iraniani, voleva, in realtà, laicizzare, sotto pretesto economico, il modo di vita iraniano.

Due Paesi laici della penisola arabica: l’Iraq di Saddam Hussein e la Siria, entrambi con le teorie socialiste del baathismo, si avviavano a essere completamente laici nella struttura governativa. Li abbiamo abbandonati, lasciandoli scivolare nelle mani dell’Unione sovietica. Ancora, la guerra a Gheddafi è stata uno sbaglio. Ora, in Libia, regna il caos totale.

Senza contare che la fine del comunismo e dell’Unione Sovietica sono stati un grosso colpo per l’equilibrio mondiale: l’anarchico contrario a tutto, prima trovava spazio e voce, oggi non più. Oggi, l’anarchico va a ingrossare le file dell’Isis. Sono molti, infatti, gli europei, soprattutto francesi e inglesi che scelgono di combattere a fianco di Daesh.

 

 

 

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