Food :: 15 giu 2018

Novel food & Wine: ricette dall’Antropocene

Spaghetti raw, “kaimani” e orange wine

Di Elisabetta Dall’Ò.
C’era una volta il futuro. Così potrebbe iniziare un racconto per bambini scritto dal profondo dell’Antropocene, l’era geologica in cui viviamo, mangiamo, consumiamo, produciamo, scriviamo, da almeno due secoli a questa parte, e che ci vede come il principale agente di impatto sul nostro Pianeta. E così potrebbe essere guardare alla storia recente della nostra Terra, magari da qualche angolo di mondo in cui l’umanità superstite si sarà rifugiata per scampare alle conseguenze delle nostre “scelte di specie”. Una prospettiva apocalittica, certo, ma non poi così irreale, conseguenza diretta del “mito della cornucopia” che ci ha fatto credere in un “glorioso destino” di risorse inesauribili, per poi riportarci bruscamente alla realtà.
Già, perché parafrasando il poeta Mark Strandil futuro non è più quello di una volta”, e le amministrazioni pubbliche, la politica, la società, il mondo dell’economia e quello della cultura sono chiamate a dare una risposta, a “pre-vedere” il futuro, per scongiurare il disastro.
 Ancora una volta, accantonati i panni di “scienziata sociale” — sono un’antropologa — rifletto sulle soluzioni pratiche che potremmo mettere in atto, a partire proprio dalle nostre abitudini alimentari, magari mettendoci ai fornelli con qualche consapevolezza in più. E se il futuro, quello del nostro pianeta e dei suoi abitanti, è in stretta relazione con le nostre mode di consumo, tra tutte, le scelte alimentari potrebbero avere un ruolo decisivo nell’arginare — o al contrario nell’amplificare — fenomeni come il surriscaldamento globale e l’emissione di gas serra nell’atmosfera. In che modo? Se è vero che nel 2050 la popolazione mondiale raggiungerà quota 9 miliardi, per soddisfare la richiesta di cibo occorrerà ricorrere a soluzioni nuove e alternative alla — poco sostenibile — produzione intensiva di carne. Una risposta innovativa, sostenuta anche dalla FAO, potrebbe arrivare dai “novel food”, e in particolare dalla produzione di insetti; molto più sostenibile da un punto di vista ambientale, e meno dispendiosa in termini energetici. Ora la domanda che mi sono posta è: saremo pronti per un cambiamento così epocale delle nostre abitudini (occidentali) alimentari? Ho provato a rispondere sfidando i miei miti e le mie resistenze culturali di fronte a un tipo di cibo così — almeno apparentemente — insolito e difficile da pensare, e mi sono messa ai fornelli. Per questa seconda ricetta di abbinamento vini-insetti (la prima è pubblicata QUI il 23 maggio 2018) ho pensato di continuare ad esplorare il potenziale edibile di questi organismi, questa volta rompendo il tabù visivo, e proponendo un abbinamento un po’ più audace, per un piatto che fosse buono, gustoso, fresco, e soprattutto facilmente “riproducibile” nella cucina di tutti i giorni.
Bastano 4 ingredienti e 15 min di preparazione: zucchini, robiola fresca di capra, pistacchi e larve “kaimano” (1). Da abbinare a un Orange Wine (2).
 Propongo uno spaghetto raw di zucchini, leggero, fresco e vitaminico, servito su una crema di robiola fresca di capra, accompagnato da una granella di pistacchi e “Zophobas Morio” (a.k.a. kaimano), una gustosissima larva allevata in biologico, dal sapore intenso (3), quasi piccante e che richiama il formaggio, perfetta per un piatto estivo. In commercio si trova già essiccata ma io l’ho tostata al forno per 5 minuti insieme con i pistacchi e una spolverata di pepe, per rendere il tutto più croccante. Per gli spaghetti di zucchini ho utilizzato uno “spiralizzatore” per verdure, mantenendo anche la buccia, da agricoltura biologica (senza pesticidi e ricca di vitamine), e zero sprechi!
La crema di caprino (lavorate la robiola fresca con una frusta fino a renderla cremosa) è stata preparata con la Champchevrette della piccola azienda La Chèvre Heureuse (in francese “la capra felice”) di Saint Marcel in Valle d’Aosta. E qui le capre sono davvero felici: i metodi sono quelli di una volta; la mungitura è fatta a mano, per rispettare gli animali e perché il latte è più buono, e i pascoli — boschi e prati spontanei — sono manifestazione di un ambiente ancora incontaminato.
E sempre a proposito di luoghi, non poteva mancare l’abbinamento con un vino al contempo innovativo ed espressione storica e culturale del territorio che lo caratterizza: il Tacsum 2016 (4). Un orange wine straordinario — il primo prodotto in Valle d’Aosta — biodinamico (e oltre), sostenibile e buono per l’ambiente, frutto della passione e della ricerca dei vigneron, una coppia di giovani appassionati di vini naturali e di ecologia che ha dato vita all’azienda VinTage (si legge alla francese!), una piccolissima realtà locale che si è cimentata con un mercato di nicchia: piccoli numeri, alta qualità, per fini intenditori. E anche nella scelta del nome ci sono impegno e passione: la T maiuscola che unisce le parole “vin” e “age” (foto) è idealmente una vite, una congiunzione storica che connette il vino al tempo, alla vigna; luogo dove “si fa”, come una volta, il vino buono per davvero. Quanto alle origini degli orange wine, esistono diverse scuole di pensiero e altrettanti “miti fondatori”, che si dividono tra chi vuole che i primi a produrli siano stati i romani, e chi pensa invece che sia tutto merito dei georgiani. Quello che sappiamo per certo è che hanno una storia molto antica, e che oggi sono prodotti da uve bianche, e vinificati in rosso (ovvero fatti macerare sulle bucce). Il Tacsum, che se letto al contrario dà Muscat, rimanda al nome del vitigno che lo caratterizza (il Muscat di Chambave, una D.O.C. che però vale per il bianco e non per l’orange wine), macera per 10 giorni sulle bucce, procedura che gli conferisce un colore tipicamente aranciato, profumi, e tannini decisi; perfetto per reggere un abbinamento insolito e di carattere come questo. È un vino che “apre una nuova via” nel panorama valdostano, e che, ne sono convinta, si farà strada.

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